domenica 31 agosto 2008

Storie vere / Ondina Peteani


A un’anziana degente vengono liberati gli arti, da tempo costretti in una contenzione forzosa. L’occasione è una visita neurologica, durante la quale le viene chiesto di scrivere ad occhi chiusi una frase, la prima cosa che le viene in mente. È un’immagine dura: un vecchio corpo martoriato dalla malattia, una personalità prostrata dalla depressione, con evidenti problemi respiratori, quaranta chili appena per un’altezza di un metro e settanta: sembra – e in effetti è – reduce da un lager, ma non siamo nella primavera del ’45, bensì negli ultimi mesi del 2002 e l’anziana morirà dopo poco, il 3 gennaio 2003. Dal campo di sterminio era riuscita ad andarsene quasi cinquantasette anni prima, alla Liberazione, ma qualcosa che aveva portato con sé da quella terrificante esperienza era tornato, per portarsela via.

La prima cosa che le venne in mente di scrivere, in quella visita medica, furono anche le ultime parole che scrisse: “È bello vivere liberi”. Alla luce di quanto oggi sappiamo di quell’anziana inferma, un autentico, telegrafico testamento spirituale.

Quelle quattro parole scarabocchiate ad occhi chiusi su un foglio sono ora il titolo del libro di Anna Di Gianantonio (edito dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, pp. 174, € 15) che ricostruisce la vita di Ondina Peteani, con ampie digressioni che danno conto dell’ambiente sociale e del contesto storico nel quale la donna – prima staffetta partigiana d’Italia – si mosse e fattivamente operò.

Anche se nata a Trieste il 26 aprile 1925, in quello stesso ospedale nel quale sarebbe morta settantasette anni più tardi, la sua infanzia e l’adolescenza trascorsero nell’Isontino, a Vermegliano, presso Ronchi, dove la famiglia viveva in un contesto sociale caratterizzato da un lato dalla presenza di una forte minoranza slovena, negli anni del fascismo fortemente conculcata nei suoi diritti fondamentali e, dall’altro lato, da una diffusa cultura operaia, per la vicinanza dei cantieri di Monfalcone, e soprattutto femminile per la presenza del cotonificio di Ronchi.

“Irregolare” fin dalla nascita (era figlia di un ufficiale austroungarico e non di Toni, il marito della madre), Ondina visse gli anni della sua formazione in un ambiente familiare anticonformista e fondato sugli affetti più che sulle convenzioni, a sua volta inserito in un contesto sociale connotato da una sorda opposizione al regime allora imperante.

Appena le condizioni lo permisero, fu una scelta naturale per Ondina prendere giovanissima la via della lotta partigiana, schierandosi per scelta naturale con coloro che scelsero di opporsi in armi al nazifascismo, nell’importante ruolo di collegamento tra le diverse formazioni di partigiani sloveni e italiani che agivano sul territorio giuliano.

Arrestata nel luglio del ‘43, fu detenuta assieme alla madre e alla sorella fino al settembre e, uscita dal carcere, riprese la lotta nella Resistenza. Fra le tensioni e le paure della lotta clandestina, si consumò anche un dramma familiare, quando la sorella venne accusata di essere spia dei fascisti e fu per questo giustiziata dai partigiani.

Ondina continuò tenacemente a lottare, finché, nel febbraio del ’44, fu nuovamente tratta in arresto e detenuta nelle carceri triestine del Coroneo fino a maggio, quando fu deportata ad Auschwitz.

L’esperienza indicibilmente atroce che maturò durante la detenzione in vari campi, seguendo l’esercito tedesco in rotta in quell’ultimo anno di guerra, segnò come uno spartiacque la sua vita in due parti, anche se Ondina non amava parlare della sua deportazione.

Fin qui, l’intensa biografia di una giovane eroina della Resistenza. Ma la vita di Ondina continuò per molti decenni, esercitandosi in un diverso quotidiano eroismo, continuando sin quasi alla fine dei suoi giorni a battersi non soltanto con la militanza nel PCI, ma con la concretezza dei suoi comportamenti, per gli ideali di solidarietà che avevano ispirato la sua scelta di partigiana.

Ebbe difatti la sorte di continuare la sua vita come l’aveva iniziata: un matrimonio che finì presto, il legame con un altro uomo, agente della Editori Riuniti, l’adozione del figlio Gianni quando il bambino aveva pochi mesi, per sconfiggere anche la sterilità che era un altro retaggio del lager. E ancora, la sua scelta di fare l’ostetrica, la creazione di reti di mutua assistenza, soprattutto tra donne, il suo impegno come educatrice nei campi estivi per i Pionieri organizzati dal Partito. Parallelamente alla sua, il libro della Di Giannantonio narra la storia tormentata del PCI di quegli anni, soprattutto a Trieste, diviso tra la scelta titoista e quella di Togliatti, un partito spesso rigidamente dogmatico che ad esempio non vedeva di buon occhio le scelte personali dei militanti che vivevano la loro vita affettiva all’interno di coppie di fatto. A questo partito Ondina rimarrà fedele fino alla costituzione, nel ’91 del PDS, cui aderirà anche lei.

Come si è detto, nell’ultima fase della sua esperienza Ondina subì i devastanti effetti di una depressione, quasi che l’orrore del campo di sterminio fosse tornato per riprendersela e concludere così l’opera criminale di oltre mezzo secolo prima.

Le ultime parole che di lei ci rimangono, quel messaggio di incredibile semplicità, danno da sole la misura di cosa questa donna è stata nella storia che ha attraversato col suo coraggio, il suo anticonformismo e la sua alacrità. È bello vivere liberi.

Condivido con gli amici del pluriblog "E' bello vivere liberi", in pubblicazione a firma di Walter Chiereghin sul numero di settembre del mensile Konrad di Trieste, ricevuto da Gianni, figlio di Ondina e caro amico.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

e bentrovati. Un caro saluto, Nancy.

Anonimo ha detto...

Finalmente qualcuno torna, e parla anche di cose serie: di vita vissuta e non di politica. Ciao Nancy.

mf ha detto...

L'ho conosciuta ed apprezzata anch'io.